gli Arazzi di Vittoria Montalbano




Documenti


Vittoria Montalbano: Mille anni di arazzi.

Valerio Miroglio: Un laboratorio per gli arazzi.

Mercedes Viale Ferrero: L'arte dell'arazzo.

Bruno Accomasso: Asti capitale dell'arazzo.

Anselmo Bea: Valerio Miroglio e la ricerca delle divine, disperse radici cosmiche.




Vittoria Montalbano:

Mille anni di arazzi.


Vorrei vivere mille anni. E in mille anni farei mille arazzi. Più o meno uno all'anno, perché quello è il tempo che ci vuole.


Io ho sempre fatto arazzi. Fin da ragazzina, imparando e sperimentando via via. Prima nell'arazzeria astigiana di Ugo Scassa, a contatto con opere di grandi artisti e anche, a volte , con gli artisti stessi, quelli più coinvolti nella realizzazione delle loro opere, come Guttuso e, soprattutto, Corrado Cagli.

Con Scassa ho partecipato alla creazione di arazzi bellissimi. Là mi sono impadronita della tecnica. Con il passare degli anni, però, là ho anche constatato quale differenza ci fosse tra una pura copia e una realizzazione effettuata a diretto contatto con l'artista, con la sua partecipazione. Un arazzo pensato come tale fin dall'inizio vale molto di più della copia in tessuto eseguita a partire da un quadro. Vale di più perché contiene anche la volontà dell'autore, perché la sensazione tattile legata al supporto, la grande dimensione, il grande respiro dell'opera sono veri, perché voluti sin dall'inizio.


Fare un arazzo largo due metri a partire da un quadro di Klee largo una spanna (o, peggio, da una sua foto) è un insulto a Klee, è un insulto a me, è un insulto all'intelligenza del committente (per quanta ne possa avere).

E' un insulto a Klee perché è lecito presumere che non fosse quella la «sua» dimensione (altrimenti avrebbe fatto un quadro più grande) e, comunque, non è più in vita per dirimere la questione, dare suggerimenti, e tanto meno, eventualmente, progettare un arazzo pensato e voluto come tale.

E' un insulto a me perché mi si chiede di tradire un artista.

Sull'intelligenza del committente sarebbe meglio sorvolare, salvo rilevare l'eterno contrasto tra la quotidiana sopravvivenza legata a committenze di quel genere (quando ne esistono) e le operazioni a perdere connesse alla ricerca, alla sperimentazione, ai passi in avanti effettuati sul proprio sentiero.


Ma a partire dalla morte di Corrado Cagli, nel 1977, le possibilità di produrre arazzi originali presso l'arazzeria di Ugo Scassa si ridussero ulteriormente. La prospettiva era quella di continuare a produrre opere splendide e nel contempo rimanere insoddisfatti.


Mi venne in soccorso Valerio Miroglio, un artista poliedrico che già da anni seguiva con molto interesse l'attività dell'arazzeria Scassa.

Insieme demmo vita, nel 1980, all'Arazzeria Montalbano. Insieme condividemmo poi la paura e l'emozione di “tirare giù” il primo arazzo dal telaio. Una sensazione che si sarebbe ripetuta uguale, come in un parto, ogni volta.


Oltre al valore artistico, erano evidenti in Miroglio lo spessore sociale, la grande capacità di comunicazione. Sue erano la coralità, la grande dimensione, il ritorno all'uso dell'arazzo come libro e come bandiera.

Era coraggioso, estroverso, immediato e geniale nel leggere la realtà. Portava con se una grande carica umana, ma anche momenti di paura e di sofferenza.

Miroglio aveva molte cose da dire, cose anche molto belle. E ne disse buona parte con i suoi arazzi.


Vennero le commesse, da enti pubblici e da estimatori. Attorno all'arazzeria gravitavano artisti, scrittori uomini di cultura. Per diversi anni uscì il dissacrante “Bollettino della Vittoria”, un periodico destinato agli amanti dell'arazzeria, dove si parlava del linguaggio dell'arte.


Oltre ai tanti concepiti da Miroglio vennero realizzati arazzi pensati da Gastini, da Xerra e altri.


Finalmente potevo realizzare il mio sogno: essere parte attiva in un processo che direttamente, in un'unica soluzione, portava dall'idea di un arazzo all'arazzo stesso. Come avveniva cinquecento anni prima e ora forse ancora meglio, ancora più vicino all'idea originale dell'artista. Con Miroglio capitava spesso di cambiare, in corso d'opera, un colore o un profilo.


L'attività progredì per un decennio con crescente successo, fino a che, nel giro di pochi mesi, cambiò tutto.

Miroglio scomparve, in modo inatteso, quando iniziava a vedere riconosciuti i suoi meriti, nel settembre 1991. Non vide terminare il suo “l'uomo e il cane” ed avevamo appena iniziato il suo “ottobre 1492” destinato ad una mostra negli Stati Uniti per l'anno successivo. Al museo italo-americano di San Francisco fu un successo. Un altro successo fu a New York.

Seguirono però ulteriori difficoltà. Avvenne così che gravi problemi famigliari e la necessità di cambiare sede mi spinsero, nel 1992, ed abbandonare la forma originale dell'arazzeria, per nulla incoraggiata a proseguire dalla legge Amato.

La cosa più dolorosa fu rinunciare alla lunga esperienza di Alessandra Fusello e di Sandra Romagnolo che avevano condiviso con me quell'esperienza.


Da quel momento in poi continuai da sola. Il ruolo di Miroglio, persona irripetibile, sarebbe rimasto scoperto.


L'adattamento alla nuova realtà richiese tempo. Le recenti ferite mi avvicinavano ad artisti che si muovevano in un mondo più raccolto. Più vicini, ma anche più dolorosamente esposti, fino anche al rigetto, al rischio di invasione e di espropriazione che il fare un arazzo insieme comporta. Seguendo questa strada, senza una specifica commessa, realizzai con Sandro De Alexandris il delicatissimo “stanza”, un'opera di grande respiro e bellezza. Assieme, in una lunghissima elaborazione, con disfacimenti e rifacimenti, dilatammo momenti silenziosi fino a costruire un'atmosfera. Una stanza appunto.

Era un passo in là. Usare la grande dimensione originale dell'arazzo per esprimere le più private sensazioni. Il grande arazzo è diventato un umano rifugio.


Con De Alexandris venne poi finalmente completato l'avvolgente “giardino”, un esperimento su tele d'arazzo iniziato dodici anni prima. Fu un lavoro effettuato non solo “a quattro mani” ma anche “quattro piedi”: i nostri, in calzini bianchi, sull'arazzo disteso sul pavimento. Con in mano due ferri da stiro, uno rovente ed un altro appena tolto dal freezer.


La dimensione corale cominciava a mancarmi. Venne contattato Tadini. Su di lui avevo lavorato anni prima da Scassa. La cosa gli interessava, chiese di essere ricontattato dopo un po' di tempo. Purtroppo arrivò poco dopo la notizia della sua scomparsa.


Dopo De Alexandris venne anche, a dieci anni dall'esposizione a San Francisco di un suo progetto di arazzo, il turno di Francesco Preverino. Di nuovo senza commessa. Lui abbandonò il progetto iniziale per propormi “subway”. Partecipò alla realizzazione in modo anche emotivo. Mi “conduceva” all'interno della sua metropolitana e mi indicava l'apparentemente impossibile strada per risolvere complicati particolari. Una strada che ripercorsa a ritroso appariva inaspettatamente semplice.

Con “subway” riprovai la sensazione di non essere stata io, nel rivederle a distanza di giorni e ben sapendo che nel frattempo solo io avevo lavorato al telaio, ad aver eseguito certe parti dell'arazzo. Una sensazione non infrequente a partire dalla prima volta, quando non riconoscevo come fatto da me il viso dell'angelo diabolico che Miroglio aveva ripreso da Dürer in “melancolia”.


Vennero poi due commesse, una con Francesco Preverino per il Tribunale di Asti ed una con Gianni Baretta per il Comune di Alessandria.


Di Gianni Baretta avevo avuto il privilegio di vedere diverse opere in successione. Avevo potuto così avvicinarmi, rimanendone conquistata, al suo linguaggio. Questo mi ha permesso di rendere i barlumi, le trasposizioni e le trasparenze dello splendido “fluens”.


Fare arazzi mi piace da morire. Anzi da vivere, poiché io veramente vorrei vivere mille anni di arazzi. E non limiterei il sogno agli anni a venire: io vorrei vivere i secoli passati, attraversare il passato e il futuro conoscendo artisti ed accettando sfide.

Io vorrei tornare indietro nel tempo e conoscere Raffaello, Caravaggio, Michelangelo, Leonardo ed offrire loro ciò che ho imparato a fare. E poi, avanti nel tempo, Goya. E poi vorrei essere lì quando Picasso pensa a Guernica, e chiedergli se posso fare qualcosa per lui e con lui contro la guerra.


Io non mi sento sminuita dalla dimensione della mia terra. Essere parte attenta e curiosa di una cultura significa conoscere meglio i meccanismi eterni che regolano la vita degli esseri umani sotto tutti i cieli.

Quindi non è un caso che a mancarmi molto sia qualcuno che è vissuto non lontano da me: io vorrei offrire la mia umile arte a Pellizza da Volpedo, un'intera vita a spingere in avanti, con una forza immensa, gli ultimi.


L'ho mancato per soli cent'anni. Che peccato!


Vittoria Montalbano





Valerio Miroglio:


Un laboratorio per gli arazzi.


Circa venticinque anni fa, benché mancassero del tutto tradizioni o precedenti, nasceva la prima arazzeria astigiana per iniziativa di Ugo Scassa.


Il merito di aver imposto gli arazzi di Asti all'attenzione di artisti e critici in Italia e non solo in Italia, Scassa lo deve condividere con Corrado Cagli che, oltre ad essere egli stesso un artista, fu uomo di grande cultura. È a lui infatti che si deve la partecipazione di pittori di grande talento alla non facile impresa di far nascere una arazzeria, laddove non esisteva prima alcuna esperienza del genere né vicina, né lontana. Oltre a far riprodurre in arazzo numerose sue opere, tra le quali particolarmente interessanti La caccia e L'enigma del gallo, Cagli ha sollecitato l'interesse di Mirko, di Guttuso, di Clerici, di Tadini, di Turcato, di Vedova e altri. Di Spazzapan, di Corpora, di Capogrossi e di altri ha realizzato la riproduzione di opere pittoriche, e questo non è che un elenco molto parziale. Musei pubblici e collezioni private si sono così arricchiti di questi arazzi contribuendo alla diffusione e al prestigio dell'Arazzeria di Asti.


Un collezionista assai noto per la sua ricchezza e forse un po' meno per senso critico, acquistò nel 1967 L'Europa dopo la pioggia, un arazzo ben cinque metri per due, che riproduce una delle più importanti opere di Max Ernst: una pietra miliare del surrealismo. Come sempre l'arazzo era stato eseguito con accuratezza. Il tessuto istoriato può essere annoverato tra le cose di maggior prestigio artigianale, prodotte allora in Italia, e tuttavia ci sembra sia stato un gran peccato... Un lavoro forse unico al momento del suo varo, era in realtà solo la copia di un'opera d'arte, la cui bellezza (e pregnanza storica) risiede soprattutto nel mezzo espressivo usato dall'artista per concepirla e portarla alla luce.


Il valore d'arte di quell'arazzo non va molto oltre i limiti di una gigantografia, con l'aggravante dei mezzi tecnici, che si sono interposti tra l'originale e la copia; cioè, i pigmenti fotografici (all'epoca deformanti certo più di quanto lo siano ora), poi il trasferimento dalla fotografia alla selezione delle piccole per Offset e infine agli inchiostri per stampa.


L'opera originale di Max Ernst è molto grande per cui la sua riproduzione a colori in un libro comporta una riduzione notevole, pressappoco dai due metri a cinquanta centimetri. Da qui deriva necessariamente la perdita di molti particolari che nell'opera dell'artista costituiscono elemento fondamentale del codice.


Il successivo trasferimento in arazzo, realizzato prendendo a modello la stampa, non può che riprodurre le approssimazioni del modello ingigantendole.


Se questo metodo è sbagliato, non molto migliore è quello di riprodurre l'opera copiando l'originale anziché la stampa. Il risultato sarà senza dubbio migliore, come dimostrano le molte copie di opere di Cagli; tuttavia si rimane entro i limiti dell'arazzo inteso come dipendenza dalla pittura. Si nega all'arazzo la possibilità di essere arte autonoma e originale.


Mercedes Viale, uno dei maggiori esperti di storia dell'arazzo, scrivendo delle origini e dei momenti storici più interessanti di quell'arte, ha sottolineato in più occasioni come l'arazzeria abbia raggiunto i suoi massimi splendori proprio in relazione alla consapevolezza degli artisti di produrre in coerenza e in funzione del medium e non già in ossequio ad altri mezzi espressivi come, appunto, la pittura. «L'aver ottenuto - scrive la Viale - per mezzo di una gamma di tinte quanto mai limitata (siamo nella seconda metà del XIV secolo) audaci ed efficaci effetti cromatici, prova inoltre che Nicolas Bataille aveva ben inteso le possibilità espressive che offriva la particolare natura dell'arazzo». Nicolas Bataille è stato uno dei maggiori artisti-arazzieri di Francia.


Nella serie di arazzi destinati alla Cappella Sistina, due secoli dopo nel 1515 Raffaello realizza il superamento dell'arazzo inteso come «muro tessuto» pur rispettandone ed anzi esaltandone i valori specifici e le potenzialità espressive. Egli ne conserva il carattere monumentale «dando rilievo ai valori spaziali e plastici, sacrificando quelli tessili e decorativi» (M. Viale). Il Vasari, parlando degli arazzi della Sistina, scrive: «recò meraviglia il vederli (...) opera piuttosto di miracolo che di artificio umano (...) più che tessuti, paiono veramente fatti con pennello». Laddove è evidente la genialità dell'artista nel piegare il mezzo al suo codice, senza tuttavia rinunziare alla specifica potenzialità del tessuto istoriato. Riferendo più avanti di un altro artista che nel 1530 esegui opere per il Louvre, la Viale scrive: «Bernardo van Orley rinnova tutto il linguaggio dell'arazzo facendolo partecipe della nuova sensibilità spaziale e compositiva, ma salvaguardandone per quanto possibile, l'autonomia stilistica». Emblematico della decadenza dell'arazzo nella Parigi della fine del XVIII secolo, è l'aver «considerato (l'arazzo) una forma d'arte legata alla pittura e dipendente da essa», scrive sempre la Viale. La conseguenza di questa impostazione (conseguenza peraltro comune a tutte le arti) è il suo imbastardimento. Anzi, è la fine stessa del mezzo espressivo con il suo asservimento a scopi creativi che gli sono estranei. Un'altra conseguenza è l'uso del mezzo per virtuosismi privi di giustificazione artistica.


Alla decadenza dei nostri giorni non è estranea la diffusione totalitaria della febbre mercantile.


La società dei consumi e con essa l'universalizzazione di valori bassamente

materiali ha prodotto autentiche falsificazioni nella produzione di arazzi.

Particolarmente clamorosa è la mercificazione di strane pezze ricucite e spacciate per arazzi «firmati» in vendita «nei migliori negozi». Ma c'è anche una vasta produzione che si insinua nel giro propriamente artistico: nelle gallerie d'arte, nelle collezioni di mercanti, eccetera. Si tratta di oggetti che nella maggior parte dei casi non meritano altro appellativo che quello di cordame. Tuttavia anche con cordami, come con qualsiasi altro materiale più o meno vile, un artista autentico può produrre arte; tutto quello che gli si chiede è però di non pretendere di chiamarlo arazzo. Se, tanto per fare un esempio vergognosetto, Missoni non pretendesse di definire arazzi pezze da piedi variamente assemblate, non ci sarebbe nulla da eccepire, anzi ci sarebbe da congratularsi per la sua capacità di vendere brutture a caro prezzo. In un simile contesto gli arazzi di Asti splendono di luce accecante. Potremmo dire allora che è luce riflessa quando si tratta di copie da originali; di opacità riflessa quando si tratta di copie da copie (ovvero da stampe) e infine di luce propria quando si tratta di arazzi progettati ed eseguiti nel rispetto totale dell'assunto che vuole l'arazzo opera d'arte autonoma. È questo il caso degli arazzi prodotti dalla Arazzeria Montalbano che, non solo ha diritto di collocarsi a pieno titolo nella prestigiosa categoria degli «arazzi di Asti», ma ne costituisce oggi la parte migliore. Direi lo sviluppo e il perfezionamento. È infatti a questa arazzeria che si deve il ritorno alla tradizione sotto il profilo artigianale e artistico insieme. Dopo la morte di Cagli, la Montalbano ha intrapreso l'avventura con una propria manufattura. Le sue motivazioni poggiano sull'ambizione di ritrovare la strada più corretta per il tessuto istoriato a partire dalla sua progettazione. A me ha affidato la responsabilità che già ebbe Cagli nella prima arazzeria. L'impresa mi parve subito stimolante e cosi ebbe inizio un paziente lavoro di analisi del medium per realizzare bozzetti che ne esaltassero il potenziale artistico. Sarebbe cattivo gusto se ora proprio io dessi giudizi sui risultati sotto il profilo del valore di opere d'arte; ciò che invece ritengo di poter affermare, è l'importanza delle scelte teoriche fatte da me e dall'Arazzeria Montalbano. L'esperienza di questi primi sette anni di lavoro ci consente oggi di affrontare. una impresa che ritengo di grande importanza e sicuramente destinata a proporsi con prepotenza all'attenzione degli artisti e della critica. Si tratta di mettere il medium della tela istoriata riportata ai suoi splendori, all'attenzione dei grandi artisti, cioè di quei pittori che oggi tracciano con le loro opere la strada dell'Arte. Tra costoro che si pongono nel punto più avanzato e più stimolante in essa ci sono: Claudio Parmiggiani, Marco Gastini, Michelangelo Pistoletto, Alighiero Boetti, William Xerra e vari altri; infine lo scrivente per il quale è doveroso trascurare la premessa laudativa. Peraltro l'operazione è iniziata proprio con la realizzazione del mio bozzetto, poiché era necessario sottoporre all'esame degli altri artisti un lavoro finito, dal quale poter poi trarre elementi di valutazione sul mezzo impiegato. Valerio Miroglio





Mercedes Viale Ferrero:


L'arte dell'arazzo.


Poco più di un secolo fa l'arte dell'arazzo sembrava irrimediabilmente tramontata e le pochissime manifatture (come i Gobelins) in cui perdurava una limitata attività sembravano anomale sacche di sopravvivenza di una tecnica affatto desueta. Nel 1878 Adolphe Wauters, pioniere degli studi sulla storia dell'arazzo, esortava a salvare almeno il ricordo di «quello che si produceva in un remoto passato», di «quei meravigliosi panni che i nostri avi tanto apprezzavano».
Pressapoco nello stesso tempo, un'opera tecnologico-divulgativa, il Nuovo vocabolario italiano domestico stampato a Milano dall'editore Pagnoni non menzionava nemmeno, trattando Del Tessere, l'arazzo. Si dilungava, invece, sul «benemerito» telaio meccanico «alla Jacquart» tanto diffuso da essere «universalmente adoperato nella tessitura di stoffe a mo' di ricamo e di complicati disegni»: produttore, in altre parole, di quei fini arazzi non si sa se più patetici o più repellenti destinati ad arredare i salotti buoni della media e piccola borghesia di fine Ottocento.
Sembra quasi miracoloso che, un secolo dopo, l'arazzo abbia riacquistato la sua carica vitale; e tanto più in quanto la rinascita non ha necessariamente seguito le tracce di precedenti tradizioni manifatturiere locali. Nessuna tradizione del genere esisteva ad Asti, che pure oggi vede attive ben due arazzerie: a quella fondata circa venticinque anni fa da Ugo Scassa si è infatti aggiunta, sette anni orsono, quella di Vittoria Montalbano con la responsabilità artistica di Valerio Miroglio. In realtà - e Montalbano-Miroglio lo sanno bene - la rinnovata fortuna dell'arazzo ai giorni nostri non ha nulla di miracoloso, si
fonda anzi su precise (e logiche) motivazioni culturali e funzionali.
Innanzi tutto, la specifica qualità materica e tessile dell'arazzo, stimolante
per gli artisti (ideatori ed esecutori) che con essa si cimentano in vista di esiti espressivi e significativi che non si possono ottenere con altri mezzi tecnici. Inoltre, la disponibilità di questi manufatti al tempo stesso aristocratici ed austeri, ad inserirsi in ambienti di forme architettoniche altrettanto nobili (è il caso degli arazzi di Montalbano-Miroglio nel Palazzo Zoya ad Asti). O ancora, la possibilità di istituire un rapporto creativo tra l'artista ideatore del modello e
l'artista esecutore della tessitura, che non ha da essere un copista bensì un sensibile interprete.
S'intende che le peculiarità dell'arazzo implicano anche difficoltà e problemi. La tessitura deve essere impeccabile (Vittoria Montalbano lavora con la tecnica più antica e raffinata, quella dell'«alto liccio»). L'invenzione dei modelli deve essere sentita da parte degli artisti come un progetto «in fieri», trasponibile in
proporzioni murali perché pensato per tale specifica destinazione (e di ciò sono consapevoli Miroglio, Boetti, Gastini, Parmiggiani, Pistoletto, Xerra). Né va trascurato il problema forse più arduo: quello di esprimersi in un linguaggio attuale senza tradire l'eredità del passato. Questa relazione complessa è stata tenuta presente in particolare da Miroglio, che spesso inserisce nei suoi modelli una citazione (da Holbein, da Rubens), peraltro non intesa come formula ripetitiva bensì come memoria evocativa, fonte di effetti nuovi. In tutta questa impresa si avverte un particolare orientamento che si potrebbe definire «di sfida»: sfida ai clichés del consumismo, alle tentazioni dell'improvvisazione, alle comodità dell'«usa e getta».
L'arazzo non può essere se non meditato a lungo, prima; lavorato a lungo, con estrema pazienza, poi; ma destinato, infine, a resistere a lungo e offrire un duraturo godimento artistico ai fruitori.


Mercedes Viale Ferrero







Bruno Accomasso:



Asti capitale dell'arazzo.

(La nuova provincia, mercoledì 4 dicembre 1985)



Nel centro storico di Asti all'incrocio tra via Carducci con via Varrone, nei locali dell'ex Michelerio, sorge l'arazzeria Montalbano. In un'era di sofisticata tecnologia e di software, l'impatto con un'attività vecchia di secoli porta immediatamente a ritroso nel tempo; gli stessi austeri locali, la nudità di bianche pareti servono a creare un'atmosfera tutta particolare. Appena entrati, tra due alte colonne campeggia un enorme arazzo di tre metri per uno e settanta, appena finito dopo dieci mesi di paziente lavoro.
Nella stanza attigua, invece, un altro arazzo appena cominciato: una composizione di fiori con migliaia e migliaia di sfumature che richiederanno altrettanti punti luce ed un lungo lavoro di pazienza ed attenzione. Al telaio la signora Vittoria Montalbano e le sue allieve ed a lei chiediamo di illustrarci la sua attività.



Come ha cominciato?



«Esattamente ventidue anni, fa presso l'arazzeria di Ugo Scassa. È lì che ho imparato quest'arte antica».



La tecnica dell'arazzo oggi è ancora come quella dei tempi passati?



«Esattamente, il lavoro manuale richiede sempre lo stesso impegno. Sul telaio si sistema l'ordito in cotone e poi si esegue la trama in lana. Il lavoro rimane quindi sostanzialmente tradizionale. L'unica differenza è che una volta si usava lana tessuta in proprio ed ora si
compera, badando bene a prendere lana di prima qualità: serve lana ad un capo, molto ritorta per non fare il pelo».



E per i colori?



«Beh, una volta le lane erano tinte con colori vegetali, ora con colori industriali che danno maggiori garanzie di durata nel tempo».



Allora, iete voi stessi che tingete la lana?



«Certamente. S compera la lana grezza e poi la si tinge in tutta la gamma di fumature che si desidera ottenere. D'altronde non potrebbe essere iversamente, poiché in commercio si trovano soltanto i colori di moda».



Che tipo di gratificazione offre il suo lavoro?



«La gratificazione non è senz'altro di tipo economico, poiché rende come una qualsiasi attività artigianale; è piuttosto la soddisfazione di fare qualcosa di unico. Ecco, questo
lavoro bisogna sentirlo, altrimenti non si riesce ad andare avanti».



Quanta trama riesce a produrre in una giornata lavorativa?



«Non più di un centimetro al giorno».



Ecco, mettersi davanti ad un ordito tutto bianco, questa lentezza imposta dal mezzo tecnico, il dover attendere mesi e mesi prima che il lavoro finisca, non la mette mai in crisi?



«Certo, ma non all'inizio, bensì quando si sta per concludere: prende un certo senso di smarrimento perché ci rendiamo conto che qualcosa di noi che ci ha impegnato per molto tempo ha fine. E' così ogni volta».



C'è la possibilità che quest'attività s'incrementi?



«Certo, ma bisogna avere sensibilità e la volontà di andare avanti, altrimenti non vale la pena perdere alcuni anni per imparare il mestiere e poi smettere».



Nella sala accanto all'arazzeria, Valerio Miroglio dipinge galassie su un'enorme tela. Miroglio è dell'arazzeria Montalbano, diciamo così, il direttore artistico.



Maestro - gli chiediamo - tu hai sperimentato diverse forme espressive: di tipo giornalistico, letterario e poi pittura, scultura, radio e televisione. Hai sperimentato diverse tecniche e materiali. Adesso provi anche con gli arazzi. Come mai?



«Vedo, caro mio, che ricordi bene tutta la mia attività artistica, ma l'arazzo non è una novità in senso assoluto. Tu dimentichi ad esempio che io convivo con gli arazzi da ventitre anni, da quando Scassa impiantò l'arazzeria della Certosa che sta proprio sotto casa mia. E poi sono tre anni che me ne occupo direttamente».



Come mai anche questa scelta?



«Già quando Cagli si occupava dell'arazzeria di Scassa si commetteva secondo me un errore. Si prendeva un'opera d'arte, originale fin che si vuole, e la si riproduceva in modo sublime in lana: appunto l'arazzo».



Una trasposizione da materia a materia quindi...



«Esatto ma il procedimento non è corretto anche storicamente, poiché siamo in presenza di una copia, fine quanto vuoi, di un'opera d'arte nata autonomamente. In origine, invece, l'arazzo non è nato così ed io mi sono posto il problema di ritornare al motivo ispiratore originale: pensare l'opera finalizzata a ciò che sarebbe poi diventata: cioè un arazzo.
Ed infatti tutti gli arazzi che nascono qui, nascono da bozzetti, intesi come strumenti di lavoro, che danno vita poi ad un'opera d'arte che è in lana. Il che presuppone la grande dimensione, un certo tipo di colore, ecc... Non solo: l'arazzo ha prerogative artistiche imposte dal 'medium', la lana, cioè, che sono completamente diverse dal lavoro di pittura. Anzi, direi che gli arazzi più belli sono quelli che più si allontanano dall'immagine della
pittura, che si rendono autonomi».



Quale altra ragione ti ha spinto ad occuparti di arazzi?



«M'interessa che questa antichissima attività, risorta ad Asti per merito di Scassa continui e credo che creare una seconda arazzeria che si sforza di proseguire e magari migliorare quel metodo espressivo e anche quella tecnica artigianale, sia un fatto estremamente importante».



Quale legame c'è fra il braccio e la mente, tra l'artigiano che esegue e l'artista che crea?



«In parte ti ho già risposto quando ho detto che i miei bozzetti sono finalizzati a diventare arazzi. Certo ci vuole una certa sintonia: l'opera nasce strettamente legata al 'medium' che viene usato per eseguirla e quindi alla capacità dell'artigiana di adeguarsi a quel 'medium' per dargli tutta la sua potenzialità espressiva».



I tuoi arazzi nascono come opera d'ispirazione autonoma o su commissione?



«L'ideale sarebbe la prima ipotesi, ma capisci benissimo, vero?, che non si può lavorare mesi e mesi senza aver la certezza di poter collocare il proprio prodotto. Nascono quindi su commissione tenendo conto di dove verranno posti, delle esigenze del committente ecc. Ciò
nonostante ho sempre potuto far quello che volevo a livello di progettazione. D'altronde anche i classici avevano pur sempre un papa o un principe che ordinava l'opera».



Lavorare mesi e mesi impone un costo finale altissimo...



«Alto certamente, ma non altissimo. Il prezzo di uno dei nostri arazzi è quello di un 'opera artigianale, fine senza dubbio, ma pur sempre artigianale. Per fare l'arazzo che abbiamo appena concluso, due arazziere hanno lavorato per dieci mesi, il che vuole dire che per
dieci mesi hanno dovuto mangiare, poi aggiungici quelli che si chiamano costi di gestione e produzione e ti viene fuori una bella cifra. Il conto fallo un po' tu».



Un'ultima domanda. Come si colloca la produzione astigiana in confronto alle altre? Possiamo dire che Asti è la capitale dell'arazzo?



«Ci sono parecchie arazzerie, a Roma, Firenze, nel Veneto, soprattutto in Francia e nel nord Europa, ma facendo un paragone posso dire senza falsa modestia che i nostri restano i migliori almeno sotto il profilo artigianale e forse anche sotto il profilo della ricerca del
rapporto tra il disegno, l'invenzione e l'opera eseguita. Se diciamo poi che Asti è la capitale in Italia di questa attività, non sbagliamo di molto. Anzi non ci sbagliamo affatto».



Bruno Accomasso









Anselmo Bea:


Valerio Miroglio e la ricerca delle divine, disperse radici cosmiche.



All'Arazzeria Montalbano sono stati esposti fino al 10 febbraio due arazzi di Valerlo Miroglio. Una nuova sua opera è al telaio per dare vita liberamente ad alcuni personaggi del michelangiolesco «Giudizio Universale» che si trova nella Cappella Sistina.

In un'epoca in cui le espressioni artistiche tendono troppo spesso a servire da rifugio ai fantasmi informali, è bello a volte potere essere affascinati, come noi siamo, da una linea creatrice personale ed esigente come quella sviluppata da Valerio Miroglio. Per evocare il suo mondo di sogni, amori, angosce ed esperienze (mondo in una volta reale e irreale che scaturisce da ritmi e contrasti splendenti), Miroglio si è misurato allo sforzo che deve essere compiuto dall'artista per sentirsi coinvolto in un impegno totale, verso il rigore di una pregnante intuizione.

L'intuizione è per l'arte ciò che l'ossigeno è per la vita. Un'intuizione primordiale, fondamentale, che faccia da sprone all'artista, favorito dalle molteplici risorse di una tecnica avveduta e sopraffina. Questo perché la

sua opera sia senza tregua rinnovata nella propria essenza ed esistenza.

Analizzando attentamente i suoi arazzi si è stupiti nel rilevare a che punto la spiritualità gli è stata consona, a che punto ha saputo trarre le forme felici delle sue armonie da fonti letterarie, poetiche o filosofiche. L'angelo della Malinconia del Dürer guarda fisso di fronte a sé e, sopra la linea del sogno, viaggia il bianco vascello che fu già simbolo di un felice momento tematico della creatività mirogliana, sfociato nei dipinti del «Maëlstrom» esposti nel Palazzo dei Diamanti a Ferrara. La novità di questa aggiunta, nel quadro, di parole (alto, linea del sogno), di segni (le frecce direzionali, il cerchio giottesco che evidenzia la testa dell'angelo), di frammenti di poemi e di opere, accompagnanti e punteggianti il respiro dell'idea generatrice, formano come una materia di rafforzamento, espressa mediante apporti diversi scelti per arricchire anche scientificamente il carattere emotivo dell'opera, per adornare i proponimenti dell'immaginazione.

Da un po' di tempo il mare è il luogo dove si esprime la sua «ostinazione poetica». Valerlo Miroglio in questo lavoro «Melancolia», si propone non solo di mostrare l'incanto delle ombre, ma anche l'intersezione della luce e delle sue tante linee di forza. La corrente armoniosa del blu finisce per contenere le adescanti tonalità della seppia scura, ma nella stesso tempo riflette una struggente nostalgia terrestre nei verdi segni che si agitano sul pannello di fronte all'angelo. Questa pittura comporta anche il vantaggio di sopportare

l'ingrandimento, di amplificarsi senza compromettere i suoi rapporti dimensionali, al punto di trasformarsi in «pittura abitabile»: com'è appunto la funzione dell'arazzo.

Tutta l'opera di Valerlo Miroglio sembra costituire la sintesi dell'intellettualità e della violenza della vita (e quindi fuga da questa costrizione con il viaggio onirico); sintesi, cioè risultato, ma anche riflesso della dialettica e della dicotomia: ricchezza dell'intellettualità - violenza della vita. La verità pittorica di Miroglio è sempre rivelata e nello stesso tempo è sempre sfuggente. Essa si situa fuori dalle regole canoniche perché appunto lo spirito creativo è libertà e si esprime nell'infinità dello spazio artistico, cioè nell'illimitato. Estrema nudità e ricchezza dell'arte: il quasi niente che è infinito ed oltrepassa i limiti del razionale, del culturale, del commerciale. Solitudine, «melancolia», ma socialità di chi crea. Le opere di Miroglio ci propongono sempre riflessioni sulla loro ragione di essere e l'interesse che dobbiamo portare al pensiero e all'immaginazione dalle quali esse sono scaturite. Volentieri si subisce il fascino di queste forme maturate attraverso una trasfigurazione dello spirito.

Come se Valerio Miroglio raccogliendo frantumi di mondi scomparsi (i famosi cocci di vetro, di eliotiana memoria, che colpiti da un raggio di luce, sull'orlo della distruzione, vengono richiamati miracolosamente a vivere), edificasse lui stesso altri mondi ed altri ordini architettonici, sul terreno di un assoluto idealismo.

Il tempo di Miroglio è un fatale andare e tornare, con caratteri vorticosi ed abissali. Un tempo fitto di minutissime varianti di cui pare non riuscire a venirne fuori, se non con operazioni magiche. Gli dei, insomma, non sono poi tanto distanti e possiamo immaginare che ci sorridano di compiacimento per i nostri assidui sforzi di cogliere l'essenza dell'universo e di noi stessi.

Pur nella nebbia delle tante riminiscenze, c'è in noi – pare volerci dire Valerio Miroglio – una sorta di occhio magico e segreto che si fa improvvisamente lucido attingendo all'io artistico, al di là del moltiplicarsi di immagini fluttuanti negli specchi ed erranti nei labirinti (non dimentichiamoci che il labirinto ha un suo ordine cosmico, dove si possono cogliere le tracce divine di disperse radici).

Anselmo Bea